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sabato 14 marzo 2009

Testimonianze dal CIE di Ponte Galeria

Lo sceriffo di Ponte Galeria: cronaca di una visita al Cie.

Un sopralluogo al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria alle porte di Roma. Una zona grigia di cui i migranti non hanno diritti, e oscuri poliziotti decidono su tutto. E maltrattano i consiglieri regionali.

di Anna Pizzo



Gli appunti ci sono stati stracciati, la penna tolta di mano, siamo stati spinti oltre i cancelli e ammoniti a non farlo mai più. Si è concluso così il sopralluogo al Cie [Centro di identificazione ed espulsione] di Ponte Galeria, a Roma.
Non era la prima volta che andavamo nell’ex Cpt della capitale né la prima che mettevamo piede in uno dei dieci Cpt attualmente funzionanti in Italia [ma se ne prevede la costruzione di altri nove]. Ma è di certo la prima volta che veniamo trattati in questo modo.
Eppure, ci eravamo andati con tutti i crismi dell’ufficialità: due consiglieri regionali che si sono fatti precedere da una lettera al prefetto, due accompagnatori, due inviati dal Cerimoniale della Presidenza del Consiglio regionale. Ciononostante, al funzionario di polizia in quel momento responsabile del Centro, dottor Baldelli, al quale sarebbe più congeniale la definizione di sceriffo, c’è voluto più o meno un’ora e mezza per decidere che le autorizzazioni non erano «taroccate» e che potevamo entrare.
A quel punto, e non senza un giro vorticoso di telefonate, ci ha scortato assieme a un suo solerte «uomo» e a un silente vice direttore della Croce rossa , senza mai perderci di vista. «Ma cosa esattamente volete visitare?». Ci ha chiesto più volte. E noi: «tutto». «Ma alcuni settori non sono consentiti neppure al Garante dei detenuti», risponde. Poi, quando lo incalziamo per sapere di quali settori stia parlando, si corregge, cambia argomento.

Prima tappa: le donne. «Siamo consiglieri regionali – diciamo – avete qualcosa da chiedere?». Le donne, per lo più nigeriane, ci guardano con un misto di scetticismo, ironia, e disperazione. «La libertà», risponde una e le altre annuiscono. Non parlano volentieri le donne, tranne una anziana rom che racconta di essere in Italia dal 1970 e di avere in questo paese partorito dieci figli che però non sono italiani e, stando così le cose, non lo saranno mai.

Andiamo nelle «gabbie» degli uomini. Lo scenario non cambia: doppie file di sbarre alte oltre tre metri e dentro stanze come tane per orsi, fatiscenti. Chi varca quei cancelli non ha i diritti che spettano ai detenuti né la dignità che spetta a ogni cittadino. Ponte Galeria è il luogo della sospensione di tutto, non devi neppure scontare una pena che non hai commesso. È una zona grigia, è una terra di nessuno nella quale non c’è legge se non quella di chi comanda. Come si può spiegare altrimenti, quello che anche a noi consiglieri è capitato? Mentre rivolgevamo anche agli uomini le medesime domande: «Cosa chiedete? Siamo del Consiglio regionale, avete domande da porci?» la musica è cambiata.

Man mano che giovani e meno giovani, nigeriani e bosniaci, rom e richiedenti asilo, tunisini e est europei ci si facevano incontro per parlare, raccontare, spiegare, chiedere, il funzionario di polizia Baldelli ha cominciato a spingerli, a intimare loro di farsi da parte, ci ha tolto di mano la penna con la quale stavamo prendendo appunti, ha preteso che gli consegnassimo il blocchetto, ci ha spinto verso l’uscita.

E non sono mancati i toni sfottenti:. a un giovane che si lamentava di non poter nemmeno comperare un deodorante, Baldelli ha risposto, noi testimoni: «Ma a cosa serve a te un deodorante?». Se non possiamo prendere appunti, anche se è la prima volta che ci capita, gli diciamo, possiamo almeno lasciare il nostro biglietto da visita? Negato.

Mentre siamo costretti ad allontanarci, riusciamo appena a lasciare ai reclusi il nostro numero di telefono. Da quel momento, è un continuo squillare del telefono per chiamate dal Cie alle quali non sappiamo se potremo dare risposte.

L’ultima, arrivata qualche minuto fa, ci diceva che il funzionario, evidentemente irritato, ha detto ai reclusi: «Voi da qui ve ne andrete solo quando io lo deciderò».

Nessun commento:

Prima di tutto vennero a prendere gli immigrati e stetti zitto perchè mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli zingari e fui contento perchè rubacchiavano.

Poi vennero a prendere i senzatetto ed io non dissi niente perchè avevo una casa.

Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.

Un giorno vennero a prendere me e non c'era rimasto nessuno a protestare.

Il bombardamento dell'informazione, il frastuono dei vari tipi d'inquinamento, la confusione, l'isolamento, ci spingono sempre più verso una "anestesia difensiva" che ci impedisce di comunicare con noi stessi e con gli altri, ci fa sopportare situazioni orribili e ci impedisce di trovare risposte che aprano il futuro nostro e di chi ci circonda. Il prossimo sono io! nasce con la foto petizione, ma altre attività si agiteranno a futuro, tutte volte a stimolare la necessità di identificazione nella situazione che si vive l'altro. L'obiettivo dell'identificazione è comprendere e poter prendere una posizione coerente di fronte alle situazioni personali e sociali che oggi ci troviamo a dover affrontare, come individui e come popoli.


Il Prossimo sono io dà stimolo a tutte le Nuove Azioni che aprono il futuro dell'umanità intera:
è possibile stare bene tutti!
è possibile trovarsi d'accordo anche se siamo in tanti e molto diversi!
la diversità è ricchezza! ecc....